Cosa
significa tradire? Come si tradisce? Il tradimento ha per
tutti lo stesso significato?
Banana Yoshimoto,
più che dare risposte, disegna paesaggi emotivi che delineano
i confini di uno degli aspetti più dolorosi ed enigmatici del
vivere.
Chi tradisce? La fanciulla che ha una relazione con un uomo
sposato o la moglie ingannata che, consapevole dell'affaire,
mente annunciandole la morte dell'amante? Chi si sente più
tradito? La madre che pensa sia giusto confidare alla figlia
la data di morte della nipotina appena nata, rivelandole il
suo calcolo astrologico, o la figlia che non vorrà mai più
perdonarla per la nefasta profezia?
Le protagoniste di questi racconti sono giovani donne
giapponesi tra i venti e i trent'anni. Per motivi disparati,
si trovano in Argentina, Paraguay, Brasile: terre dalle tinte
fortissime, colme di una straordinaria energia vitale che
colpisce la loro sensibilità. Sono tutte partecipi o
spettatrici
di un tradimento che, dalla prospettiva straniata dell'essere
altrove, acquista una dimensione diversa e diventa
un'occasione speciale pe rriflettere più profondamente sulla
propria identità. Come spesso succede con Banana Yoshimoto,
più che la trama in sé, è lo sviluppo dei personaggi ad
avere importanza, il loro modo di accostarsi alla realtà e ai
suoi molteplici aspetti. E nelle loro differenti vicende, il
tradimento diventa un inevitabile passaggio dell'esistenza,
un'esperienza
integrante della vita.
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Passando
per la hall piena di uomini d'affari, arrivai in camera mia,
mi feci una doccia veloce e scesi al ristorante per cenare. Il
locale era molto elegante, sembrava di trovarsi in Europa.
Mangiai una quantità incredibile di pasta, scattai alcune
foto e tornai nella mia stanza. Finalmente potei sciogliermi i
capelli e togliermi il reggiseno, la cintura e la calzamaglia.
Era da più di trenta ore che non mi mettevo a mio agio.
Tuttavia, sentivo il corpo ancora tutto irrigidito, con i
piedi gonfi che erano lì lì per avere un crampo. Dalla
finestra si vedeva il tetto di una piscina che sembrava più
che altro una serra, e una vecchia chiesa con i muri
diroccati. Nonostante mi affacciassi sul lato opposto rispetto
a quello dell'entrata dell'albergo, sulla sottile striscia di
prato che affiancava il marciapiedi della chiesa si vedeva un
altro gruppo di ragazzine. Avevano steso per terra delle
coperte e ne avevano usate altre per avvolgersi dentro
in due o tre alla volta. A differenza di quelle piazzate
davanti
all'ingresso, queste aspettavano il momento in cui la loro
rockstar preferita avrebbe dato un'occhiata alla città al
calare della sera e pertanto avrebbero passato la notte con il
naso in su, fissando la finestra della sua camera. Alcuni di
quei gruppetti bianchi sembravano fluttuare nella penombra.
Riempii la vasca da bagno di acqua, poi decisi di prendere un
sonnifero leggero e di andare a letto subito. Per prima cosa,
incominciai col rilassarmi dentro quella piccola vasca.
Ciò che detesto di più nella vita d'albergo è che, quando
si fa il bagno, il vapore dell'acqua inumidisce tutto quanto,
dagli indumenti di ricambio agli oggetti per la toilette. Ciò
che mi piace di più, invece, è il fatto che non si debba
preparare da mangiare e fare le pulizie. Una volta immersa,
finalmente la stanchezza svanì e fui sul punto di
addormentarmi di botto. Aggiungevo acqua calda poco per volta
e, invitato da quel lieve rumore sordo, il sonno che mi si
annidava nel profondo emerse fino alla superficie della pelle.
Percepivo che la tensione del corpo e della mente, sviluppata
dopo l'arrivo in quella terra sconosciuta, si stava
sciogliendo nello scorrere dell'acqua calda. La stanchezza,
proprio come un essere vivente, era diventata una massa rigida
e si era accovacciata dentro di me. Dopo non so quanto tempo,
ormai cotta a puntino, uscii dal bagno barcollando e,
godendomi il fresco dell'aria condizionata fin troppo forte,
tirai fuori dal frigorifero una birra con cui inghiottii il
sonnifero. Volevo risolvere i problemi di fuso orario in un
colpo solo. Avvolta soltanto da un asciugamano, bevvi la birra
guardando la tv da cui fuoriusciva lo spagnolo a tutto volume,
e piano piano cominciai a sentire
freddo, così che abbassai il condizionatore. Quando il rumore
dell'aria diminuì, percepii chiaramente la quiete di quella
stanza. All'infuori di me non c'era niente che si muovesse, il
colore grigio della moquette risplendeva fatuo nella penombra,
la luce soffusa della lampada illuminava soltanto i piedi e lo
sfavillio della televisione riempiva tutto l'ambiente. Dopo un
po' mi venne un colpo di sonno, per cui mi alzai per tirare
fuori il
pigiama dalla valigia. In quell'istante squillò il telefono.
Forse perché il sonnifero aveva cominciato a fare effetto, ai
miei occhi ormai annebbiati il telefono apparve terribilmente
bianco. Nelle mie orecchie, invece, quegli squilli
rimbombarono come degli strani rumori sordi. Un suono che si
diffondeva lentamente per tutta la stanza, in grado di
schiacciare quella quiete. Sul telefono un'illustrazione
spiegava i vari numeri, la reception, il servizio in camera,
la linea esterna, la sveglia
del mattino eccetera. Mentre mi accingevo ad alzare il
ricevitore, li fissai distrattamente. Guardai l'orologio e
vidi che era mezzanotte passata, ossia mezzogiorno in Giappone
dove c'era esattamente il fuso orario opposto, per cui pensai
che
fosse il mio capo che mi chiamava per sentire se ero arrivata
senza problemi.
"Pronto?" dissi, ma
sentii soltanto un terribile rumore. Dopodiché con la mente
intontita per il sonno, mi resi conto che, avendo cambiato
albergo, in teoria nessuno avrebbe potuto sapere dove mi
trovavo.
"Pronto?" ripetei ad
alta voce e dall'altra parte, coperta da forti interferenze,
sentii una flebile voce di donna. Non era il mio capo,
tantomeno sembrava essere una chiamata fatta per errore da
un'altra stanza, il rumore di fondo era senza dubbio quello
delle telefonate internazionali. Mi concentrai al massimo per
cercare di captare quella voce sottilissima e mi resi conto
che stava dicendo qualcosa in giapponese. Così esclamai:
"Parli un po' più forte per
favore!".
E la donna, questa volta scandendo parola per parola disse a
voce alta: "Stamattina Miyamoto
Masahiko è morto in un incidente stradale. La ringrazioper
tutto quello che ha fatto per lui".
L'interferenza non era ancora passata, ma sentii tutto molto
chiaramente. Una a una, la vibrazione nitida di quelle parole
che sembravano fuoriuscire da casse acustiche ad alta
definizione, mi entrò nel corpo attraverso le orecchie,
pregnante di significato. Era un po' come quando si conclude
un'immersione subacquea: dopo che sott'acqua si è comunicato
soltanto a gesti, quando si risale in superficie si ha
l'impressione di aver conversato a lungo. I rumori di fondo
non erano spariti, no, erano stati semplicemente eliminati
dalla mia mente. Avevo sperimentato quel modo di comunicare
tipico
di quando, durante un dialogo, la concentrazione sull'altro è
tale da accorciare la distanza che divide i due animi. Quando
il significato delle cose ti entra dentro direttamente.
"Cosa?" chiesi io, e come se un incantesimo si fosse
sciolto, la stanza tornò a essere reale e il frastuono a
farsi fastidioso. Dopodiché cadde la linea.
Mi trovavo abbandonata in una camera d'albergo buia e
silenziosa tranne per la musica a basso volume che usciva
dalla tv. Non so più quanto a lungo fissai l'illustrazione
del telefono completamente persa nei miei pensieri, o quante
volte presi in mano il bicchiere e bevvi un goccio di birra.
Mi rendevo conto che la birra si scaldava sempre di più e che
il suo sapore
amaro andava intensificandosi. Tuttavia il sonnifero, ormai
penetrato nel mio corpo indebolito dalla stanchezza, raggiunse
il massimo del suo effetto e le palpebre mi si appesantirono
al punto da non riuscire più a pensare a nulla. La mia
coscienza però era ancora presente e continuava a percepire
con forza il
significato della telefonata di poco prima. Intuii che chi mi
aveva chiamata era la moglie di Masahiko. Chissà perché lo
capii. Non riuscivo proprio a realizzare, però, che Masahiko,
cui continuavo a pensare come se niente fosse stato, forse non
era più in questo mondo. Era strano. Cercai di chiamarlo sul
cellulare, ma la chiamata venne trasferita alla sua segreteria
telefonica. Provai più di una volta, ma sempre con lo stesso
risultato. Dove suonava il suo telefono? In un ospedale?
Vicino alla sua salma? I pensieri nefasti si propagavano senza
freno, il mio animo cercava a tal punto di evadere che sullo
schermo della mia mente non compariva più nessuna immagine.
Il telefono di Masahiko era nero? Oppure bianco madreperla?
Questo era ciò che mi girava per la testa. Restai seduta
fintanto che non sentii freddo alla testa per via dei capelli
bagnati, poi mi alzai a fatica. Ero restata ferma in quella
posizione a lungo, tanto che sul letto era rimasta una traccia
bagnata rotonda, come se mi fossi fatta la pipì addosso. Non
sapendo cosa fare mi misi il pigiama e, in piedi davanti alla
finestra, guardai ancora una volta fuori.
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